Emozioni

tafel056L’importanza di “capirsi”: alessitimia, attacchi di panico e Intelligenza Emotiva

Le espressioni del disagio mentale assumono forme diverse a seconda del contesto socio-culturale nel quale si manifestano: i sintomi, anche quelli apparentemente più bizzarri, hanno sempre una valenza comunicativa, e questo li rende in qualche modo conformi al tempo e allo spazio in cui la persona vive.

Così, alla fine dell’Ottocento, in una Mitteleuropa psicologicamente governata dal processo di rimozione, la “nevrosi isterica”, con le sue paralisi “a guanto”, gli stati crepuscolari di coscienza e le convulsioni epilettoidi rappresentava la modalità privilegiata, nonché quella meglio codificata, per “dare corpo” alla sofferenza psichica.

Fra i sintomi considerati paradigmatici del nostro tempo – un tempo in cui il corpo, perlomeno in relazione alle sue componenti pulsionali, ha cessato di essere un tabù, ma dove, paradossalmente, la capacità di controllare e di controllarsi è considerata prioritaria – l’attacco di panico è invece, e significativamente, fra i più diffusi. Definito come “un periodo preciso (raggiunge l’apice in dieci minuti o meno) durante il quale vi è l’insorgenza di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati con una sensazione di catastrofe imminente” ma “in assenza di un vero pericolo”, l’attacco di panico è associato a palpitazioni, sudorazione, dispnea o sensazioni di soffocamento, derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi), paura di perdere il controllo o di impazzire, paura di morire, etc.

Questo sintomo può evolvere in Disturbo di Panico, diagnosi che si configura quando il ripetersi di episodi di panico è così pervasivo da condizionare il funzionamento complessivo dell’individuo, determinando per esempio condotte di evitamento e una persistente preoccupazione circa l’eventuale insorgere di una crisi.

L’impatto letteralmente deflagrante dell’attacco di panico è caratterizzato da una rapidità che non lascia spazio all’elaborazione simbolica: è una reazione immediata, nel senso che non viene “mediata” da un pensiero (magari ossessivo o depressivo), da una parola (come nei disturbi di conversione) o da un’azione (per esempio, gli “agiti” tipici delle sindromi borderline); si tratta di un sintomo che si manifesta direttamente a livello fisico, rispondendo con un repentino aumento dell’arousal fisiologico (reazione di “attacco e fuga”) a un disagio di carattere psicologico. Stando così le cose, non sorprende che questo tipo di disturbo sia particolarmente frequente nelle persone dette “alessitimiche”, caratterizzate cioè da una sorta di “analfabetismo emotivo” che rende loro difficile riconoscere e quindi elaborare sul piano simbolico le proprie e altrui emozioni.

Oltre alla specifica difficoltà nel “leggere” gli stati emotivi, l’alessitimia è definita dall’incapacità di descriverli e comunicarli adeguatamente ad altri; il costrutto è inoltre caratterizzato da una coartazione dei processi immaginativi, con appiattimento del pensiero speculativo a favore del ragionamento concreto-operativo, e da una scarsa capacità di introspezione che privilegia il razionale sull’emotivo e l’attuale sul possibile [S. Vanheule, P. Verhaeghe, M. Desmet, “In search of a framework for the treatment of alexithymia”, Psychology and Psychotherapy: Theory, Research and Practice (2010), n° 84, pp. 84-97]. In ambito clinico, il tratto alessitimico si riscontra soprattutto, a prescindere dal DAP (Disturbo da Attacchi di Panico), in quei disturbi che tendono a bypassare il livello simbolico “agendo” direttamente sul corpo, come per esempio accade nelle somatizzazioni (ipertensione in primis), nei disturbi dell’alimentazione e nella dipendenza da sostanze; l’alessitimia è inoltre frequente nei disturbi dell’umore (depressione, disturbo bipolare, etc.) che per definizione implicano una difficoltà nell’elaborazione e regolazione delle emozioni.

All’estremità opposta di un ipotetico continuum che misuri le “competenze emotive” delle persone si situano invece coloro che si caratterizzano per un alto coefficiente di Intelligenza Emotiva (EI): un costrutto che ha ormai soppiantato il Quoziente Intellettivo (QI) nel predire la capacità di adattamento di un individuo. Come numerosi studi hanno dimostrato negli ultimi anni (ma come, forse, da sempre intuitivamente si sapeva), l’intelligenza da sola non garantisce la buona “riuscita” di un percorso esistenziale: per esempio, persone molto intelligenti possono essere al tempo stesso incapaci di manifestare in maniera appropriata i propri bisogni, riducendo quindi proporzionalmente la probabilità di essere comprese e aiutate. Al contrario, l’abilità nel discernere le proprie emozioni si traduce nella capacità di comunicare in maniera efficace, comprendere gli altri e rispondervi empaticamente, coinvolgere le persone nei propri progetti e instaurare rapporti mutualmente soddisfacenti.

Coerentemente, un alto grado di Intelligenza Emotiva risulta associato a minori livelli di stress psicologico e a un maggiore senso di realizzazione personale [N. Bhullar, N. S. Schutte & J. M. Malouff, “Trait Emotional Intelligence as a moderator of the relationship between psychological distress and satisfaction with life”, Individual Differences Research, 2012, Vol. 10, No.1, pp. 19-26], nonché a migliori risultati in ambito scolastico [P. M. Grehan, R. Flanagan & R. G. Malgady, “Successful graduate students: the role of personality traits and emotional intelligence”, Psychology in the Schools, Vol. 48(4), 2011] e lavorativo, indipendentemente dalle caratteristiche di personalità. In termini di capacità di adattamento, potremmo dire che non importa se una persona sia tendenzialmente introversa o estroversa, tradizionalista o aperta al cambiamento, decisionista o gregaria, nella misura in cui sia capace di comprendere i propri stati d’animo e quelli degli altri.

Anche se studi recenti hanno suggerito l’esistenza di un “lato oscuro”, e ancora poco indagato, dell’Intelligenza Emotiva – per esempio, Austin et al (2007) hanno ipotizzato che il successo accademico degli studenti con alta EI potrebbe essere riconducibile alla capacità di leggere e “manipolare” le altrui emozioni [D. E. Winkel, R. L. Wyland, M. A. Shaffer & P. Clason, “A new perspective on psychological resources: unanticipated consequences of impulsivity and emotional intelligence”, Journal of Occupational and Organizational Psychology (2011), n° 84, pp. 78-94] – questa competenza si dimostra preziosa sia a livello personale che sociale, tanto da avere portato all’implementazione di programmi tesi a potenziarla, per esempio in ambito aziendale, nel counselling scolastico, e in diversi altri contesti.

E’ infatti indubbio che l’Intelligenza Emotiva dipenda moltissimo dall’apprendimento, nel senso che la mutuiamo in maniera automatica durante la crescita dalle nostre figure di riferimento, ma che poi, a prescindere dalla dotazione di partenza, possiamo continuare ad apprenderla sempre di più e sempre meglio nel corso dell’intero ciclo di vita.

[Questo testo è originariamente comparso sulla rivista TicinoSette n°43 del 26/X/12]

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